02) La Signora senza destino

Ma li iniziarono i problemi. Veri.

Il marito le trovò lavoro dall’ambasciatore. Ma non era più il suo uomo: “… era diventato un libertino …” invece di occuparsi di lei e del bambino.

Non sapeva se l’aveva mai amato. Ma ormai voleva fare famiglia. Non ne aveva conosciuti altri. Il cuore non aveva mai battuto forte. Sembrava avesse dovuto. Non aveva la forza di poter immaginare una vita diversa da quella che aveva avuto. Figurarsi un destino diverso.

Tra altri pregi, era anche diventato violento con il passare degli anni.

La picchiava e picchiava il figlio quando non poteva sfogarsi completamente su di lei. La figlia divenne anoressica causa l’abbandono del padre. Indicativamente nell’ottantanove. Voleva provare a farsi una nuova vita, si sentiva ancora giovane diceva, l’ex marito.

Mi raccontò di aver vissuto un grande trauma alla separazione. “Così improvviso …” da lei descritto. Tentai di pensare qualcosa. Ma i risultati erano scarni. Dalla separazione del marito in poi tentò due volte il suicidio per assunzione di Tavor. La seconda volta assumendo cento pastiglie. Ma nuovamente con scarsi risultati.

Presi le pastiglie, mi misi a letto. E la mattina mia figlia mi trovò nel letto e chiamarono l’ambulanza … mi svegliai in ospedale però senza le flebo dell’altro ricovero. Poi andai a casa …” così, semplicemente. Era una storia con la quale avrei imparato a convivere.

Al termine.

Io: “La prossima volta se vuole, signora, parleremo un po’ più di lei …”

La signora sorpresa: “Ah si … e che dico? Ho finito”.

Ed Io: “Vedrà che verrà fuori dell’altro …”

Mi guardò tra il perplesso e il bisognoso.

Arrivederci”.

Arrivederci”.

Poco professionale, ma avevo sonno, sì. Facevo fatica a non sbadigliare. Avevo accorciato l’incontro a quarantacinque minuti. Ero coperto: asetticamente psicoanalitico. Minimo sindacale.

Incontrai il Dr.: “Tutto bene?”

Io: “Si …” cercando qualcosa di interessante da dire mentre mi stropicciavo gli occhi furtivamente.

Dr.: “Interessante vero?”

Io: “Si si!!”.

Sbadiglio.

Non capii cosa potesse esserci di interessante nel racconto stereotipato della signora. Individuai la causa inizialmente nella mia difficoltà penetrativa, nella mia incapacità di comprensione. Il torpore contro – transferale aveva avuto il sopravvento.

La stereotipia era importante, molto importante. Interessante per l’esattezza.

B) Venerdì 24 dicembre.

La malattia mentale

Come il diciassette.

Però in più aggiunse en passant…

Ma gliel’ho detto l’altra volta che non ho conosciuto mia madre e l’unico ricordo che ho di lei è una foto?”

Io: “No …”

E poi.

E che mia madre ha incominciato a sentirsi male dopo la nascita della sorellina minore che in realtà è una gemella di un fratellino nato morto?”

Io: “No …”

E ancora: “… e che in realtà era stata ricoverata, forse, in uno di quei posti dove va la gente esaurita, ed è morta, dicono di broncopolmonite?”

Io: “No … no …”

CONTINUA

01) La Signora senza destino

La signora senza destino.

A) Venerdì 17 dicembre 2010.

Appena arrivato, a bruciapelo il Dr. mi comunicò che avrei avuto un colloquio con una paziente “interessante”. Non volle comunicarmi nulla a riguardo. Avrei dovuto indagare autonomamente.

Arrivò la signora, andatura lenta ma inesorabile. Tentò subito di agganciare il Dr.. Lui era però pronto a schivarla: la deviò su di me.

Dr.: “Buongiorno signora. Come va?”

Lei, lentamente: “Bene, grazie.”. Non sembrava.

Dr.: “Oggi può parlare con il dottore. Le può raccontare tutto. Se vuole. Arrivederci.”.

Lei: “Grazie. Arrivederci”. All’espressione del viso bisognoso di altro dopo questo abbandono il Dr. aggiunse allontanandosi: “Dall’inizio …” Collocandomi di fatto nella sua storia a pieno diritto. Formale.

Trovammo una stanza dove iniziare il colloquio. C’erano due sedie poste agli estremi del lato lungo di un angusto banchetto appoggiato alla parete. Con parte della schiena appoggiata al muro e parte allo schienale della sedia, i nostri corpi si fronteggiavano a quarantacinque gradi acuti. Con un separatore avrebbe saputo di sacrestia. Provai a tranquillizzare la signora riaffermando la sua completa libertà nel parlare.

Con tanto di crocefisso sopra di noi: “Mi dica signora …”.

Lei: “Devo parlare?”

Io: “Se vuole sì, signora”.

Lei: “Dall’inizio?”

Io: “Si signora. Da qualsiasi punto sia per lei l’inizio”

Lei: “Ah … bene” disse soddisfatta. Quindi pianse.

Un minuto.

Si asciugava le lacrime con un fazzoletto usato, pronto all’uso. Balenò in me l’intuizione che non sarebbe stata una passeggiata. Neanche per lei.

Il racconto iniziò da quando venne lasciata in collegio con le altre tre sorelle alla morte della madre. Forse. E ricominciò il pianto. E poi.

“…tre, tre, tre.” Mi spiegò che intendeva che erano tre sorelle e che dalla più piccola passavano tre anni e così da lei alla più grande. Tre, tre, tre.

La madre stava male, ricoverata da tempo in ospedale. Non capii mai bene di cosa soffrisse e del motivo del ricovero. Alla sua scomparsa il padre si fece subito una nuova vita. La nuova madre che “Non la chiamo matrigna perché è dispregiativo”, in realtà ne aveva tutti i titoli vista la sua determinante funzione nel farle chiudere in collegio e praticamente mai più entrare in casa. Anche il figlio nato dalla nuova unione non era un “fratellastro” per lo stesso motivo. “Gli volevo bene” per poi aggiungere poco dopo che non lo aveva mai realmente conosciuto.

Uscì dal collegio a tredici anni. Andò a lavorare a Marsala, Sicilia, come bambinaia assieme alle due sorelle. La più grande faceva la cameriera, lei guardava i bambini della casa come la sorella più piccola. Dopo due anni si ripresentò la stessa occasione a Roma. Andarono anche perché, come detto precedentemente, la casa paterna gli era ormai interdetta. La distribuzione delle mansioni era la medesima. Inserita in una comunità di emigrati sardi, conobbe un ragazzo, fratello di una sua amica sempre cameriera presso famiglie romane. Lo incontrava nelle otto ore settimanali di libertà che aveva suddivise equamente tra il giovedì e la domenica. Era più grande di sei anni e lavorava presso un ambasciatore come autista e tuttofare.

A dieciassette anni rimase incinta. Non poteva riconoscere il bambino come minore. Il ragazzo nicchiava. Nascose tutto alla famiglia per evitare problemi ancora più grandi. Di onore probabilmente. Alla nascita del bambino dovette resistere all’assalto delle assistenti sociali che volevano convincerla a darlo in adozione essendo lei ragazza madre. Le rimase di andare al brefotrofio, dove visse per nove mesi. Quindi riuscì ad uscire. E finalmente a sposarsi.

CONTINUA…

02) Gelosia

PROSEGUE..

3) “Punizione”:

quella dove il geloso si strazia della perdita, passa il proprio tempo reale ma soprattutto psichico a pensare all’oggetto perduto. Sembrerebbe. Ma, per l’esattezza, ad una visione più attenta, più meticolosa, quello che sembra un pensare è una ricostruzione e quello che sembra un oggetto perduto è un una bella immagine di sé sfuggita. Il geloso, dei litigi e dei momenti cupi precedenti la rottura del rapporto, non ricorda niente, non vuole, non può. Al passare del tempo l’oggetto riacquista la sua magnificenza, e tutte le sue doti vengono nuovamente riconosciute dopo un periodo di fagocitante annichilimento. Ci sono tre momenti che possono aiutare a spiegare questa fase: 1) sensi di colpa, 2) ricaricarsi, 3) viscosità della libido. I sensi di colpa non dipendono, da quanto si penserebbe ingenuamente, dal rinsavimento del soggetto geloso conscio dei suoi errori. Ebbene no. Vorrei porre l’attenzione su un momento sfuggente della relazione “gelosa”: il limbo tra il momento “dell’amore” e “del cupo dolore”. Nei tre momenti della relazione citati sopra manca il momento della…

4) “Distruzione dell’oggetto”:

Ma in ordine. Il geloso non solo è conscio dei suoi comportamenti, ma ne ha bisogno. I sensi di colpa nascono dal limbo. Qui avviene la caduta della seconda maschera: è il momento dell’espressione, della presa di coscienza, anche se vaga, confusa, di tutta la propria cannibalesca aggressività. Odia. L’odio, una parola che in se non vuol dire tanto ma che uso per comodità, visto la grande quantità di significati eterogenei che contiene. Ha fame. Esce il mostro che è in lui. In questo momento possono verificarsi fenomeni di stalking in tutte le sue forme, tramite un annichilimento dell’altro tale da togliergli la terra da sotto i piedi, oppure in una derealizzazione psicotica colpevolizzante. Strategia finalizzata al recupero dell’oggetto che si percepisce ancora proprio, ma ferito e quindi attaccabile frontalmente. Non tramite strategie come quando lo si percepisce integro, quindi manipolato ed aggirato in un atteggiamento adulatorio e parassitario, che si realizza ultimato quando ormai il legame è dato. Questo dato momento è una vampata di odio psicotico verso l’ennesima bella immagine di sé, in realtà lontana, fuggita, traditrice e fondamentalmente altra da sé. È un momento nel quale l’incantesimo narcisistico ha un momento di defaillance come quando la maledizione ha inizio alla mezzanotte e si scopre il volto del mostro. Ma il nuovo giorno è alle porte. La scarica è stata, il geloso è esausto. Ha bisogno di ricaricarsi, tutto quello che adesso è fuori di se deve tornare, deve essere recuperato. E pian piano tutto torna al proprio, precario, posto. E si ricomincia. Come? Con ancestrali e quindi infantili sensi di colpa. Ecco dove traggono forza, dall’odio profondo. Naturalmente è esaminato e valutato come se fosse una modalità esclusivamente patogena data la sua eccezionale problematica quantitativa che nello scenario mostra. I sensi di colpa fungono a una duplice depistante funzione : quella di riabilitarsi verso se stessi e verso l’altro che a seconda del livello patogeno del legame e nelle condizioni giuste potrebbe arrivare a ripensare nevroticamente la relazione, fino a considerazioni tipiche: “in fondo mi voleva solo bene, mi amava”. Altra parola che non significa niente perché significa troppo (o meglio troppe cose, stati). Altri appetiti. Qui abbiamo il momento del rigenerarsi della carica. In ambedue i soggetti sebbene con strategie diverse si guarda a quello che è accaduto. Il geloso ormai punitosi abbastanza è tornato in sé, ha scaricato tutto il suo odio primordiale e furente. Quindi riavvia le vecchie strategie avviluppatrici rispetto ormai ad un soggetto che percepisce di nuovo integro, non affrontabile frontalmente. E di nuovo fantastico, fantasticato. In una fantasia nostalgica anch’essa proveniente da molto lontano, lontano nel tempo. Qui entra in gioco il terzo fattore: la viscosità della libido che dona comunque qualità alle altre due fasi. Qui appare chiarissimo come sia difficile spostare un quantitativo importante di energia libidica investita nevroticamente. E lo possiamo notare palesemente in due fasi distinte del rapporto del geloso: nel tentativo arcaico di un contatto, tramutatosi in una necessità di possesso e nella sua doppia rievocazione, ovvero nel momento della prima relazione e nei tentativi successivi di ripristinarla in una incontrollabile spinta della coazione a ripetere sul modello appunto della relazione primaria. Lo spostamento di un quantitativo di libido collocata nevroticamente può avvenire senza investire grandi quantità energetiche quando naturalmente l’oggetto è affine alla nevrosi di base. Nel geloso infatti le maglie dell’inganno incominciano a sfaldarsi nel caso in cui l’altro tenti uno spostamento relazionale dalla fase dell’inglobamento: da qui nascono le forti reazioni difensive del geloso. La libido deve rimanere dov’è. L’”intreccio pulsionale” adleriano è utile per comprendere realisticamente la moltitudine di sfumature che poi tali rapporti vengono ad assumere.

Concluderei con una concettualizzazione della relazione gelosa di tipo fisica – meccanica. Brevemente e quindi fallace, ma scusatemi.

Il gioco di proiezioni, idealizzazioni, investimenti si colloca realisticamente sopra un meccanismo più elementare. Un meccanismo inseribile ad un livello di funzionamento base, per l’appunto “Elementale”.

Newton, principio di azione – reazione:

Se su un corpo agisce una forza, allora esiste un altro corpo su cui agisce una forza uguale e contraria. Ovvero, ad ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e contraria. Quindi le mutue azioni fra due corpi sono sempre uguali e dirette in senso contrario. Più precisamente: quando un corpo A esercita una forza su un corpo B, anche B esercita una forza su A; le due forze hanno stesso modulo (intensità), stessa direzione, ma versi opposti.

Traslando a noi, ad uno sforzo energetico, un investimento, una produzione e quindi un consumo di energia deve corrispondere un cambiamento della realtà in relazione alla percezione dell’agente produttore dello sforzo. Il cambiamento della realtà sia psichica che fisica, avverrà sempre. Il problema è nella sua percezione, nella capacità di percepire. Alla mancata restituzione dell’energia investita secondo la qualità desiderata ci sarà un tentativo di recupero della stessa. A seconda della posizione occupata su di un continuum psicopatologico ci saranno tentativi di recupero diversi: gelosia per l’appunto, invidia, difesa dell’onore, vendetta, l’orgoglio, fino a strategie più sane come la sublimazione su altri “oggetti”.

La gelosia si connota nella punizione dell’altro con la sottrazione dell’energia datagli: il problema della persecutorietà della punizione risiede nella persecutorietà intrinseca nella prima energia donata all’altro, già inquinata e dalla pretesa di un recupero crediti che passa dalla dimensione dello psichico a quella della riappropiazione fisica del credito supposto: il geloso da quello che può, l’altro non riesce a tornargli il desiderato, non è possibile anche se è tutto quello che possiede, ma a questo punto decide di appropriarsi dell’oggetto non potendo avere le sue emozioni idealizzate a suo uso e consumo compensatorio. Quella che era la dote diventa lo strumento di tortura.

01) Gelosia

La Gelosia.

Commento a “Frammenti di una metafora” dall’articolo “L’ascolto e la metafora”.

Il prof. Perrotti introduce in questo passo il concetto di gelosia unendolo a quello di metafora. Afferma: “Che la metafora abbia una grande importanza per la vita psichica in generale e per l’andamento di un’analisi terapeutica è una constatazione fatta da me nel corso di vari anni.”. Continua inserendo la gelosia: “Vi contribuì in un certo modo ‘l’esperimento sulla gelosia’. Anni fa cominciai a pensare che la mente soffre di dolore acuto, di noia, di ripetitività, quando è costretta a funzionare secondo un solo codice espressivo.”. Partirò da qui.

La gelosia, per l’appunto.

Il passaggio dell’articolo che prenderò in esame pone il problema della tecnica dell’interpretazione della gelosia: la finalità sarebbe quella di trovare una strategia tale che dal tecnicismo si sperimenti una consapevolezza interna del difficile vissuto della gelosia in modo di permettere una maggiore ampiezza alla sua pensabilità e dicibilità. In quella che dovrebbe trasformarsi in una ricerca di senso dentro di sé e successivamente in una interpretazione influenzata dall’emozioni del paziente, rielaborate, metaforizzate. Interpretate per l’appunto nel lavoro ultimo, quello di restituire una “testimonianza vivente”. Quindi un codice comunicativo “tecnico” sarebbe men che mai utile nella comunicazione con paziente “geloso”. Penso che questo derivi dalla natura primitiva della volontà di possesso geloso, che se vissuta, è molto lontana da una possibilità di razionalizzazione. Potrebbe tuttavia essere anche intesa, ma porterebbe il discorso ad un tale livello di razionalizzazione difensiva da mandare in stallo il rapporto terapeutico dato in quel momento.

Nel prosieguo dello scritto il Dott. Perrotti a titolo esemplificativo cita tre momenti della gelosia che lui individua in “quello del dubbio”, “quello dell’amore” e “quello del cupo dolore” che mi è parso anche utile contestualizzare temporalmente in un semplicissimo “prima, durante, dopo” e rinominare meno semplicemente come i momenti 1) “del desiderio”, 2) “dell’inglobamento”, 3) “della punizione”.

1) “Desiderio”:

di un oggetto, nel senso stretto, che possa dare forma al proprio vuoto. Non parlerei di riempimento, quanto di rimodellare il vuoto, come di riformulare il pensiero sempre e comunque in assenza di un contenuto psichico “tangibile”, in un’ombra cinese. Basti riflettere sui risultati nel reale delle forti gelosie che alla conquista dell’oggetto non placano le derive patologiche. Anzi. Subentra il sospetto paranoico, c’è una continua ricerca dello scontro delirante per tentare di riportare sempre a zero la pretesa di partecipazione vitale dell’altro alla relazione (richiederebbe uno spostamento libidico inaccettabile per il geloso). Anche fisicamente all’occorrenza. Inizialmente abbiamo il desiderio nel quale il soggetto viene oggettivato in un aurea divina. La creazione di tale oggetto perfetto e degno passa per una quantificazione del bilanciamento psichico che dovrà sostenere: l’angelo sarà più magnifico al bisogno di un inferno quanto più abominevole. Al momento dell’aggancio subentra il momento de

2) “L’inglobamento”:

 l’angelo viene messo in gabbia, gli vengono tagliate le ali, ma fuori da sé. Viene spolpato, ingoiato, digerito. E quindi espulso. La sua funzione era quella di irradiare un immagine di sé, in un narcisismo che non riesce a specchiarsi nella propria deformità, perfetta. Come dicevo il vuoto rimane tale, cambia la sua forma, per un lasso di tempo determinato, si abbellisce, condivide, pensa, ma in realtà è una manovra parassitaria. Qui avviene la caduta della prima maschera del geloso: quella che si nutre della fantasmatica immagine compensatrice creata nell’altro, sull’altro. Che soccomberà certamente vista l’impossibilità del confronto. Alla quale vorrà anche soccombere visto il particolare legame. Quindi inaridirà. Il geloso avrà un vuoto interiore e una mancanza di pensiero “belli” da mostrare finché potrà cibarsi dell’altro. Questo tipo di rapporto, patologico ed estremizzato per convenienza divulgativa, si reggerà su un periodico rifornimento di rassicurazioni narcisistiche all’altro. Altro fortemente bisognoso di un ritorno di immagine narcisistica molto forte: la fortissima gelosia viene razionalmente spiegata come il metro di un fortissimo amore. E solo in un legame tanto forte, tanto da mostrare la corda della patologia, si sente riconosciuto, e ancora, nutre il suo bisogno di essere speciale, copertura di una miserabile necessità di essere visti e tenuti a sé. Ma anche i legami gelosi per quanto collusivi prima o poi possono dissolversi. Come dicevo prima, al cadere della prima maschera.

Saremmo arrivati quindi al momento della…

CONTINUA…

03) Storia Della Signorina F.

Prosegue…

Ultimo incontro

La sala ricreativa era vuota e in penombra. Le altre pazienti o in stanza o a messa. Lei era lì seduta al suo posto, sulla sua poltrona, vicino al televisore. Era una giornata che prometteva pioggia e il colore del cielo era come quello della sera, quando la giornata si appresta a finire.

Mi vide, ma non disse niente, mi avvicinai.

Io: ”Buongiorno”.

F.: ”Salve fratello sano…sono distrutta. Domani esco”.

Ero stato informato. Sarebbe stata dimessa il giorno seguente. Non sembrava contenta. Rispetto poi alle continue lamentele sulle compagne di degenza mi aspettavo più entusiasmo. La notizia di tornare nel mondo reale aveva risvegliato in lei angoscia e paura. Non poteva comprare le “cremine” e tutti i ciondoli. Non le passavano più i soldi. Aveva paura, della sua agorafobia, degli autobus e dei marocchini. Come per il rapporto con i barboni. La badante la trattava male. La madre la teneva sempre sotto pressione psicofisica. La sorella la odiava. Il padre era morto. A casa fu travolta da un senso di vergogna che le veniva buttato addosso in modo genericamente gratuito e fuori da una analisi selvaggia, peraltro riscontrata anche dal Dr., data da sedute irregolari e interpretazioni precoci. Era tutto semplicemente un po’ più chiaro. Il mondo che la aspettava era quello del suo malessere. Voleva rimanere più a lungo: con i nuclei sani del “padre sano” (il Dr.), della Dottoressa e del “fratello sano” (io). Dovevamo chiudere la pancia, mi ricordò.

Era buio, e in penombra andava avanti il nostro colloquio dettato sempre dal ritmo di F. “allegro ma non troppo”. Tanti aneddoti, spesso riciclati e tappezzati di nuove emozioni e sfumature. Tanti centri e case di cura, dottori ed operatori nella sua vita, nella sua mente, tra una canzone abbozzata ed un’altra. Nei suoi desideri. Non sarà più come tanti anni fa. La morte del padre, quando aveva undici anni. Non come il suo precedente operatore che “…se l’è goduto fino ai trentadue!”.

“Non guarirò mai” mi disse. “Mi hanno detto a X che se non divento “spicchiatella”, non troverò mai marito. Ma io sono pronta per Gesù”. Mi confessa che un giorno tornerà per riposare ancora e sotto il benestare del “padre sano” potremmo andare mano nella mano a fare una passeggiata soli, io e lei. Ancora un’oscillazione tra il desiderio e la sua rimozione maniacale.

Poi, uno strappo, un elemento importante. Si stava chiudendo la pancia. La mia attenzione meno rigida ma più puntuale rispetto alle nostre risonanze mi aiutava a reggere l’impatto. Era importante. Forse ci saremmo rivisti a marzo, o ad aprile. In primavera. Per altri “…ventitré ventiquattro giorni di riposo”. Mi chiamerà. Se potrà. I contorni del suo viso si scioglievano tra le sue parole. Sorvolavano rapide l’attenzione e scomparivano velocemente come i primi fiocchi di neve al suolo. Neve di primavera. Ci avviavamo alla conclusione e lei mi raccontava ancora aneddoti già sentiti. Mi chiedevo se stesse dando la stessa importanza all’ultimo incontro che gli stavo dando io. Probabilmente molto di più, conclusi. Solo allora mi apparve chiaro che i suoi racconti stereotipati erano l’impalcatura della sua mente. Solo ricostruendola ogni volta poteva parlarmi per pochi secondi del padre, della madre, del mestruo, della sorella e altri vissuti consistentemente penosi. Altrimenti non aveva dove contenerli. Come la leggenda di Sisifo. Condannata a sospingere in cima la sfera, per poter dire durante il tempo della sua caduta . Poi ricominciare a creare lo spazio, per poter vedere, per poco. Era molto doloroso, faticoso.

F.: “Non posso parlartene” mi disse in due occasioni, visibilmente sofferente. Si difendeva. Fortemente. Erano due contenuti sessualmente accentati.

L’ultimo sogno: “Andavamo a passeggio su di una collina mano nella mano. Ci fermavamo e stavamo li tranquilli, quando incominciò a piovere.”. Tristezza e sessualità combinate da una sola parola ed una sola espressione del viso, nelle sua ultima immagine.

Noi siamo fratelli, però adottivi, altrimenti è una cosa brutta, sporca. Oscillava tra una forte sessualizzazione del rapporto e il contrario. Dalla sessualità era provata significativamente e i sensi di colpa per desideri infantili e incestuosi la reprimevano del tutto. Desiderio sessuale – disagio – parentela assicurativa – desiderio sessuale ancora – diniego.

Mi confidò di essersi accorta del messaggio dei miei occhi. Un giorno le comunicarono il mio dispiacere nel pensare il suo nucleo sano mescolato con quello delle “vecchie” della casa. E mi raccontò del Dr. che era contento dell’ipotetica buona conclusione della nostra storia. Anche se non poteva chiamarmi dottore porcellino… Prendeva i pensieri più belli, a lei più cari, li salvava trasformandoli, facendoli propri di persone come me o il Dr. o per dirla a suo modo, con il “nucleo sano”. Per non prendere stilettate. Per non bruciarli. Dura è la vita.

Era già visibilmente stanca. La stanchezza di chi sapeva cosa la aspettava. E di chi aveva provato. Quella stanchezza data da un equilibrio energeticamente patogeno. La madre era malata, la doveva massaggiare, diceva lei. E la sfruttava per sbrigare tutte le faccende dentro e fuori casa. Madre padrona, una bambina cresciuta nel ricordo di quello che sarebbe potuto essere. Senza un padre, anzi, senza due padri, con la morte che aleggiava, attiva e presente. Cattiva sorte. Caduti in disgrazia. Sarebbe potuto essere. Convinta ormai del suo ineluttabile destino “disagiato”, percepito, compreso, sventolatogli in faccia come una colpa. Una vergogna. La vergogna del desiderio. Voleva passare da due a dieci gocce di Valium. Tutto andava bene pur di non pensarci. L’importante era non dovere subire altri prelievi. Aveva già dato, donato. E ancora avrebbe aspettato prima di ricevere. Per molto ancora. La congedai.

Andandomene incontrai un’altra paziente, aveva dell’ansia. Ci penserà il Dr. per i farmaci dissi. Lei mi rispose che non bisognava di quello, voleva parlare. Ci penserà il Dr. per i dolori dell’anima.

E poi un’altra ancora. Stava tanto male diceva. Ci penserà la Dottoressa, le dissi, per le medicine. E lei disse che aveva bisogno di parlare, tanto. Ed io le dissi che ci avrebbe pensato la dottoressa per i dolori dello spirito.

E intanto mi guardava a distanza ancora, F. Appoggiata al muro del corridoio, le mani dietro la schiena. In fondo volevano parlare, solo parlare. O meglio, essere ascoltate, solo essere ascoltate.

02) Storia Della Signorina F.

Prosegue…

Neve di primavera.

L’istantanea con autoscatto della sua organizzazione mentale raccontava di un camino acceso dove venivano all’occorrenza bruciate le parole. Nella stessa stanza si trovavano i pensieri che vagavano liberi. Ora, se i pensieri rimanevano nell’etere erano salvi, ma non si potevano dire. Nel momento in cui diventavano parole dovevano essere bruciate e non si potevano più utilizzare. Se si resisteva a questo meccanismo tentando di ascoltare e poi esprimere verbalmente il pensato che vagava libero, arrivavano delle stilettate sulle ginocchia da una persona non bene definita.

L’idea trasmessami da questa scena era di un pensiero simbolico, troppo doloroso da vedere ed essere provato emozionalmente, quindi da poter codificare in parole. La comprensione doveva essere contenuta, ma la strategia era distruttiva. La sensazione era di un forte dispendio libidico. Da lì la caratteristica tenerezza di usare frequentemente diminutivi: la tendenza sadica era frenata nel bruciare il pensiero, poi parola, vissuto come e nella sua componente aggressiva. Il potenziale di angoscia era doloroso in modo direttamente proporzionale alla sua consapevolezza. Tutto sommato era meglio bruciare il desiderio del nucleo patologico, essere stanchi, che essere colpiti.

Tra un discorso apparentemente di poca importanza e un altro:

F.: “Io mi sento femminuccia e ne è l’unico segno evidente solo quando ho le mestruazioni. Ed è anche l’unico momento nel quale mi sento pulita”. Si sentiva pulita nella limitazione “impostagli” ma quanto mai gradita proporzionalmente al desiderio. Limitazioni pratiche, ormonali nella diminuzione del desiderio. E nell’uso di un tabù. Il tabù del rapporto sessuale con sconosciuti durante il mestruo è qui usato per annullarne il desiderio.

F.: “Mi piace molto Michael Jackson. Sa, non è pedofilo, e lo hanno ucciso. X alla struttura Y mi ha detto che mi piace solo perché ha un “pene” (più prosaicamente nella realtà) gigante”.

Io: “Non merita neanche replica una tale insinuazione verso di lei, persona così di cultura e livello…”. Sentii il bisogno di doverla ripulire ulteriormente. Avevo perso il controllo e tentavo di ripristinarlo in lei rinforzandola razionalmente. Non avrei dovuto ma a conti fatti fu più utile coprire un po’ più che continuare a svelare. E poi mi ero ripulito anche’io.

F. sorrise, mi guardò riconoscente della mia galanteria e riservatezza. Non adesso, se ne parlerà magari un’altra volta. Sapevamo che non era così. Sarebbero bastati pochi incontri a oltrepassare questo limite.

Mi confidò di ritenersi irrecuperabile. Gli risposi affermando fermamente la mia convinzione che si trovasse sulla strada giusta, comunque. Mi sentii autorizzato a un’affermazione di questo genere confortato dalla sua storia clinica recente. Ma era davvero migliorata? Il setting, o meglio la sua peculiare impalpabilità, mi permetteva paradossalmente di abbassare la guardia. Non ero sicuro affatto di quello che avevo previsto, ma ne ero sicuro in altro modo: il potenziale umano era ricco. Per ultimo, ma non per importanza, le comunicai la mia fiducia perché faceva bene a entrambi. Alla sua vita tanto vituperata. Alla mia inesperta compassione. E in fondo costava poco rispetto al rendimento. Ne ero sicuro e glielo comunicai.

L’anamnesi fu complessa da ricavare. Confusa e contraddittoria sul piano di realtà come naturalmente funzionale ai racconti di F. quanto poi a tratti inutile rispetto alla realtà della sua vita vissuta psichica. Brevemente.

Le muore il padre a undici anni.

Quarta figlia, due sorelle erano decedute, la madre era gravemente malata.

A diciotto anni i primi segni di scompenso, frequentò un collegio, a ventisei iniziò un analisi personale che durò 13 anni fino a quando uno degli analisti (non è chiaro questo frangente) le consigliò di farsi ricoverare.

A trentuno anni si iscrisse alla facoltà di psicologia.

48 anni e da tre non frequentava centri per la cura mentale.

Disse di essere figlia adottiva di suo padre. Ma poi lo negò.

Un altro Giorno.

Esordì in maniera decisa F.:”…sono le 11…” con un chiaro tono polemico.

Io con un tono sinceramente sereno: “Sempre verso quest’ora ci vediamo no?”.

F.: “Beh si…perché cosa ho detto?” come a tirarsi indietro.

Era triste perché la madre non la chiamava da qualche giorno. Forse non sapeva del suo ricovero e probabilmente le mancava un quadro patologico esaustivo. O realisticamente non poteva accettarlo.

Io:“Ma vuoi andare via?”

F.:”Quando avrò dormito a sufficienza si…”. Questo desiderio aveva l’aria di sensi di colpa contenuti in una coltre depressiva. Dopo qualche rassicurazione che prima o poi l’avrebbe chiamata incominciò a farsi avanti con decisione.

F.: “Ho sognato che è nato un bambino. Un bambino buono. E ce l’ho tra le braccia. È nostro…”.

Io: “Hai visto che la mia sensazione trasmessale la settimana scorsa ha trovato conforto dentro di lei? È un bel sogno “sognare” di dare la vita ad un bambino”.

F.:“Si…Io mi posso sposare solo con Gesù Cristo o con qualche principe, altrimenti suora.

Ah, un’altra cosa: ma dove eri venerdì? Ti ho cercato per tutta la villa!”

Io:”Non ci sono il venerdì, non potevi trovarmi, ci sono il lunedì e mercoledì”.

F.:”E come faccio io. Mi apri la pancia e poi rimane aperta, non si chiude finché non ritorni. Psicologicamente e fisicamente. Ho un taglio qui. Qui c’è il bambino”. Sguardo ammiccante ma controllato come timorosa della mia reazione.

Non alimentai. Ma lei continuò.

F.:”Posso chiamarti dottore porcellino? Sa…” come ad intendere una intimità fisica.

Io:”No..non si può”.

F.:”Peccato…con l’altro psicologo potevo…”.

Io:”Ma ognuno…”.

F.:”Si si…”.

E ancora mi propose di diventare il suo ragazzo, di fare delle passeggiate soli mano nella mano o almeno a braccetto, ancora di chiamarmi dottore porcellino.

Ai miei fermi rifiuti rispose forzando ulteriormente. Mi raccontò delle sue esperienze sessuali. Due a memoria. La prima nella quale il ragazzo le toccava il seno e la seconda nella quale accadeva “il fatto” come da lei chiamato. Il tentativo seduttivo fu così parossistico che non mi creò problemi. Almeno apparentemente. Lei lo intuì chiaramente ma comunque fece un passo indietro, in un ruolo meno pericoloso e traballante.

F.:”Sa dottore…con te ho 48, anni ma anche 5 dentro di me! Per te sarei disposta a portare il pannolone per tutta la vita”.

“Bene” pensai. Dopo tanto parlare, sentire e accusare, un dato anamnestico della sua realtà psichica era emerso in tutta la sua tranquillizzante forma numerica. Mi rimaneva tanto dal quale guardarmi. Lei aveva intuito che nei primi colloqui era entrata senza incontrare difese discriminanti, e aveva provato a sfruttarlo. Da etereo e quasi indiscriminato, il transfert si era repentinamente sessualizzato. Trasformandosi. Le moltitudini di operatori ai quali lei faceva riferimento con grande devozione erano un feticcio. Ma oggi era sembrato che avesse puntato tutto su di un numero. Aveva messo in gioco il suo disagio. Era calata la maschera. Stava iniziando la regressione.

Mi stava ammaliando? Il transfert sessualizzato che stava inscenando, era sempre una ripetizione in fondo. Era precoce, eccessivamente. Dopo un primo momento di collusione giunsi a un’amara conclusione: mi stava dando quello che volevo. Le sue parole, le sue affermazioni, le sue simbolizzazioni erano degne di essere spalmate in tempi considerevolmente più lunghi senza per questo perdere la loro carica trasformativa. Cominciai a considerare la situazione transferale, prima buona, poi ottima fino all’eccessivamente gratificante.  Ci si chiederà a questo punto cosa c’era di così anomalo in una situazione transferale di questo tipo per quanto forte…e anche per quanto rapida viste le caratteristiche combinate della paziente e del contesto terapeutico. Ebbi un dubbio. Sentivo qualcosa di strano. E di strano c’era che il transfert non si era mai formato. O almeno in proporzioni di molto inferiori a quelle mostrate. Anzi: la sua qualità era diversa. Avevo di fronte a me la ripetizione di anni di vita ospedaliera psichiatrica e non di dinamiche familiari espressamente genitoriali. Troppo calde evidentemente. Un eco dunque. Un derivato di troppo. E mi stava testando. Lo aveva fatto precedentemente. Continuava a farlo. Probabilmente facendo un confronto con il suo personalissimo “gruppo controllo” di comportamenti terapeutici. Di esperienza ne aveva. Ero stato presuntuoso. Di positivo considerai il processo di scrematura, che probabilmente, ma molto più in la mi avrebbe portato a confrontarmi con la translazione del suo vero passato e non con il surrogato della sua difesa razionale. Se me lo fossi guadagnato. Mi aveva ammaliato.

Il problema, o meglio uno dei tanti, era “il nucleo del disagio”, così denominato da F., interno ed esterno. Oltre ad essere “picchiatella” doveva “sorbirsi” questi nuclei patologici da “tutte queste vecchie pazze e dalle suore”. “Cos’ho da spartire con loro” chiedeva. Lei doveva “spicchiatellarsi”, ma con tutti quei “nuclei del disagio” nei paraggi non era semplice. E poi non era come loro che nel peggiore dei casi rientravano dopo tre mesi e nei migliori dopo sette. Lei erano tre anni che stava bene.

F.: ”Alcune cose non posso dirle. Non voglio”.

Io: ”Giusto così”.

F.: ”Sono private” per poi iniziare a mimare qualcosa. Stava mostrando fisicamente la scena. Non aveva parole sufficientemente scariche libidicamente. Rischioso poterle dire. Le stava rappresentando, con viso serio e impegnato nel suo mimo psicotico. Non capii niente. Il pensiero corse a Bion che riferiva nei racconti delle sue sedute di vedere gli oggetti bizzarri lanciati dal paziente per la stanza… pensai come fosse fondamentale osservare i punti di caduta… visto che prima o poi bisognava andare anche a raccoglierli. Io mi limitai fiducioso ad attendere una futura trasformazione verbale.

CONTINUA…

01) Storia Della Signorina F.

La signorina F.

Primo giorno. E gli altri.

Passeggiavamo tra i vari reparti della casa di cura. Un giro esplorativo. Il dottore  mi consigliò di prestare attenzione. Si avvicinò una donna dal viso curato, notevolmente, fuorviante dell’età anagrafica. Stavo per conoscere la signorina F. La introdusse come una paziente “straordinaria”. Ci raggiunse mostrando soddisfazione. Passo rapido, viso a terra, determinata. L’esposizione datagli dal breve tragitto le era pesata.

F.: “Buongiorno padre sano.” disse riferendosi al Dr. e tentando un rispettoso abbraccio.

Il Dr.: “Buongiorno F., come va oggi?” schivandolo in modo altrettanto garbato.

Da quell’istante i saluti, i colloqui o le chiacchierate con F. si trasformarono in un esercizio linguistico coatto e psichicamente invasivo. Era composto di libere associazioni, rime, citazioni, frasi fatte, vezzeggiativi e motti di spirito in generale che doveva essere interrotto da terzi. Il Dr. mi chiese cosa ne pensassi. La prima sensazione indefinita, disorientante. Mi aveva confuso. Avevo posto molta attenzione alle sue parole e paradossalmente si era rivelata una strategia poco redditizia. Pensai che dovessi allentare la presa. E di dovermi difendere maggiormente per districare le trame tessute dalle molte parole. Filtrarle e aspettare di valutarne la posa.

Doveva nel suo presente psichico parlare. Doveva liberarsi. Una prolungata esplosione anale. È stitica. È ossessiva. È una catena di esplosioni. Un flusso di coscienza continuo. Quasi continuo. Tra la moltitudine di parole, concetti e collegamenti che produceva, fatta concentrare su uno di questi, ad hoc, su dei nodi, s’interrompeva il flusso. Riprendeva fiato e continuava con un tipico “…e allora…”. Una corda era stata toccata. A volte cambiava timbro: “Somatizzo sulla voce, le corde vocali sa, fratello sano, e sull’intestino…sa…sono stitica”. Ossessiva e ossessionata dalla pulizia. Tendeva a sottolinearlo sempre d’altronde, era diventato un vanto. Ormai scudo del nucleo patologico e niente più. Da difesa svolta e organizzata per anni senza consapevolezza adesso era utilizzata come uno strumento utile a non crollare. La sbandierava la sua ossessione. Tentava di distrarre l’attenzione dalla sua ferita. Teneva tutto un po’ più vicino l’ordine e la pulizia, conteneva la disintegrazione. E quel poco che ancora riusciva a creare lo teneva dentro di se.

F.: ”Nel mio armadio metto delle piccole borsette contenenti profumo alla fragola. Sa, si tratta di avere rispetto per se stessi, contro una sensazione di ‘barbonaggio’”. La paura della deriva è riscontrabile significativamente nelle ossessioni e fobie legate all’igiene. Ed era una prima strategia. Come seconda si avvaleva di un’acuta razionalizzazione: nei momenti più profondi dei colloqui incominciava a citare espressioni tecniche analitiche o psichiatriche donategli incautamente in tutti questi anni di peregrinare tra strutture di varia accoglienza.

Io: “F. che ne pensa se non usassimo più tutti questi tecnicismi?” suggerii.

E lei: ”…finalmente…”.

Io: ”Proviamo a parlare…”.

E lei: ”Con il cuore…”.

Ma non poteva.

L’istantanea con autoscatto della sua organizzazione mentale raccontava di un camino acceso dove venivano all’occorrenza bruciate le parole. Nella stessa stanza si trovavano i pensieri che vagavano liberi. Ora, se i pensieri rimanevano nell’etere erano salvi, ma non si potevano dire. Nel momento in cui diventavano parole dovevano essere bruciate e non si potevano più utilizzare. Se si resisteva a questo meccanismo tentando di ascoltare e poi esprimere verbalmente il pensato che vagava libero, arrivavano delle stilettate sulle ginocchia da una persona non bene definita.

L’idea trasmessami da questa scena era di un pensiero simbolico, troppo doloroso da vedere ed essere provato emozionalmente, quindi da poter codificare in parole. La comprensione doveva essere contenuta, ma la strategia era distruttiva. La sensazione era di un forte dispendio libidico. Da lì la caratteristica tenerezza di usare frequentemente diminutivi: la tendenza sadica era frenata nel bruciare il pensiero, poi parola, vissuto come e nella sua componente aggressiva. Il potenziale di angoscia era doloroso in modo direttamente proporzionale alla sua consapevolezza. Tutto sommato era meglio bruciare il desiderio del nucleo patologico, essere stanchi, che essere colpiti.

Tra un discorso apparentemente di poca importanza e un altro:

F.: “Io mi sento femminuccia e ne è l’unico segno evidente solo quando ho le mestruazioni. Ed è anche l’unico momento nel quale mi sento pulita”. Si sentiva pulita nella limitazione “impostagli” ma quanto mai gradita proporzionalmente al desiderio. Limitazioni pratiche, ormonali nella diminuzione del desiderio. E nell’uso di un tabù. Il tabù del rapporto sessuale con sconosciuti durante il mestruo è qui usato per annullarne il desiderio.

F.: “Mi piace molto Michael Jackson. Sa, non è pedofilo, e lo hanno ucciso. X alla struttura Y mi ha detto che mi piace solo perché ha un “pene” (più prosaicamente nella realtà) gigante”.

Io: “Non merita neanche replica una tale insinuazione verso di lei, persona così di cultura e livello…”. Sentii il bisogno di doverla ripulire ulteriormente. Avevo perso il controllo e tentavo di ripristinarlo in lei rinforzandola razionalmente. Non avrei dovuto ma a conti fatti fu più utile coprire un po’ più che continuare a svelare. E poi mi ero ripulito anche’io.

F. sorrise, mi guardò riconoscente della mia galanteria e riservatezza. Non adesso, se ne parlerà magari un’altra volta. Sapevamo che non era così. Sarebbero bastati pochi incontri a oltrepassare questo limite.

Mi confidò di ritenersi irrecuperabile. Gli risposi affermando fermamente la mia convinzione che si trovasse sulla strada giusta, comunque. Mi sentii autorizzato a un’affermazione di questo genere confortato dalla sua storia clinica recente. Ma era davvero migliorata? Il setting, o meglio la sua peculiare impalpabilità, mi permetteva paradossalmente di abbassare la guardia. Non ero sicuro affatto di quello che avevo previsto, ma ne ero sicuro in altro modo: il potenziale umano era ricco. Per ultimo, ma non per importanza, le comunicai la mia fiducia perché faceva bene a entrambi. Alla sua vita tanto vituperata. Alla mia inesperta compassione. E in fondo costava poco rispetto al rendimento. Ne ero sicuro e glielo comunicai.

Continua…

Read More

17) Autolesionismo

PROSEGUE…

17)

Lo scorpione.

P.s.: Mi piacerebbe in conclusione citare un comportamento che ci viene direttamente dal mondo animale e se volete potete divertivi a posizionarlo sul continuum precedentemente citato: lo scorpione se minacciato dalle fiamme e valutata l’assenza di via di fuga… si punge mortalmente.

FINE