02) Dei livelli interpretativi

Secondo antefatto:

Otto sedute ed un mese e mezzo circa prima.

In quel momento stava placidamente descrivendo la sua sensazione di essersi sentito probabilmente superiore nell’aver pensato di avermi pagato la mensilità, quando non l’aveva in effetti fatto…

Ad un tratto fece la sua comparsa una comunicazione prima:

P: “Quando guido la macchina ho sempre guardato molto nello specchietto centrale, per far passare

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chi viene da dietro più veloce… per farlo passare.”,

Io: “Interessante.”.

Il paziente sentì di aver detto più delle parole che aveva pronunciato: tentò di ridimensionare l’accaduto alla cieca.

P: “Il significato più immediato è la paura di confrontarsi. Meglio che gli altri superino. O semplicemente non voler intralciare il percorso a queste persone per non essere intralciato a mia volta. Torna il tema della velocità, mi condiziona. Ho il desiderio del sogno ricorrente di stare in mezzo a tante donne. Per stare bene ci vogliono libertà e soldi: le donne sono una conseguenza dei soldi. Quando le rispondo che anche io la amo sto mentendo, come a mia zia (parlando della sua ragazza). Vorrei fare una vacanza con i miei amici, adesso ne avrei bisogno, mi darebbe la carica.

Mi manca il flirt.”.

In questa trance analitica abbiamo una comunicazione prima ed una sua dipanazione. Presa a sé potremmo anche azzardare un’interpretazione ma solo in presenza di un’altra comunicazione della stessa qualità potremo arrivare ad una riflessione più ponderata.

Ma procediamo per gradi.

Un primo livello interpretativo di tipo relazionale ce lo regala il nostro paziente che, in modo un po’ razionale certo, ci descrive la sua regolazione degli spazi vitali. Poi ci parla della difficoltà del suo rapporto amoroso e chiosa parlando dei suoi amici. Il materiale, sembra poco lavorato, sembrerebbe piatto. Senza ulteriori associazioni intendo. È importante considerare che a differenza del sogno dove le immagini vengono codificate in parole con un depotenziamento della carica libidica, nel parlare il processo è inverso. Le narrazioni possono essere trasformate solo nella loro costruzione di senso perché si caricano libidicamente nella creazione del simbolo sottostante.

Tornando alla comunicazione prima, come abbiamo detto, non è valutabile a sé stante. Aspettando altro materiale possiamo aggiungere un’altra caratteristica a questa categoria comunicativa: l’assenza di vincoli temporali. Si potrebbe supporre dalle loro manifestazioni che siano collegate nell’inconscio e facciano capolino nel tempo delle nostre percezioni con la loro tempistica.

CONTINUA…

01) Dei livelli interpretativi

Dei livelli interpretativi.

Modalità di come i contenuti inconsci vengano veicolati attraverso le comunicazioni consce.

L’obiettivo di questo breve saggio è mostrare come, a partire da un elemento riportato in analisi ad un livello conscio, si possa arrivare a quanto di inconscio veicoli. Le comunicazioni analitiche contengono in genere elementi da considerare come se fossero sempre e comunque dei simboli frutto del lavoro di mascheramento, spostamento etc.. Sono fenomeni conosciuti perché osservati principalmente nell’analisi dei sogni. E basandoci su questo presupposto opereremo.

Che sia un lapsus di parola o una “Comunicazione prima” come nel caso che vi presenterò a breve, importante sarà sempre quanto libidicamente, e quindi semanticamente, i simboli ed i significanti siano legati tra loro. Le caratteristiche comuni, i significati, ci permetteranno di non essere ingannati dagli elementi manifesti: mai, almeno nelle intenzioni. Permetteremo in linea di massima di esserne più o meno intralciati e depistati dalla notevole arguzia della resistenza qualora sia il caso, ma mai perdendo la rotta affidandoci alla nostra stella Polare: la libido.

Primo antefatto.

Entrando nella stanza d’analisi.

Motivazione della richiesta dell’incontro: il paziente aveva dei problemi con la sua ragazza rispetto alle sue pratiche onanistiche. L’obiettivo della terapia desiderato era quello di riuscire a “capirsi per poter così smettere di masturbarmi” dato che la ragazza aveva posto l’interruzione di tali pratiche autoerotiche come condizione basilare per la prosecuzione del rapporto.

In una seduta.

Il paziente stava snocciolando i suoi racconti patinati di un’infanzia prima e di un’adolescenza poi all’insegna di una ”insensibilità” nei confronti di un cugino vittima di una grave malattia disabilitante. Erano mesi che mi parlava di questa presunta aridità interiore, facendo di tutto per farmi vivere il suo racconto, ma riuscendo solo ad interpretare piattamente delle pagine di un libro che non conosceva poi così bene.

Ad un tratto.

P: “Ho dei flash back sul mondo del lavoro. No. I flash back non centrano niente. Sono insignificanti. Non c’ entrano niente con il mio intento. Sono delle immagini in realtà. È come se avessi perso la capacità di concentrarmi a causa del duro lavoro.”.

Eccoli. Dopo alcuni mesi incominciavano ad affacciarsi, anzi più correttamente a spingere, dei vissuti significativi. Erano si delle immagini, ma il lapsus li significava ancor più chiaramente. Erano delle immagini che lo portavano indietro: dei “Flash”, fare luce, su di un “Back” (dietro), il suo passato. In inglese, lingua che il mio paziente conosceva bene, il “Flash Back” è propriamente un ricordo che affiora improvvisamente dal passato attraverso un immagine. Lo distoglievano da quello che lui riteneva fosse importante: il suo raccontare analitico, freddo, preparato, demandato. Proprio poche sedute prima mi aveva confidato di voler intensificare il lavoro, voleva lavorare più duramente, voleva più risultati. Mi propose quella che aveva pensato potesse essere la strategia per raggiungere tale risultato:

P: “Sono disposto anche a farmi ipnotizzare!!!”. Ovvero a non fare niente. Era il suo massimo grado di partecipazione il non remare contro, doveva farsi da parte, non poteva rimanere neanche lì ad ascoltare il silenzio. Le immagini lo avrebbero disturbato. Facevano pressione sui nodi razionali che tenevano insieme la rete di sicurezza che nel tempo, seduta dopo seduta, aveva intessuto, inconsapevole di quanto contemporaneamente li stesse allentando dall’altro capo. Le immagini erano quindi dovute al duro lavoro che gli toglieva concentrazione. Vero. Un particolare però non aveva compreso la sua riflessione: il lavoro non era quello che giornalmente lo impegnava nei suoi uffici. Era il lavoro analitico: locuzione usata in terapia e fatta propria dal suo vocabolario dei

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significati inconsci. Era stato solo spostato. Era l’inizio della scala, il primo gradino, a scendere. Il lavoro analitico gli aveva reso meno fluido l’esercizio di stile che mi regalava durante le sedute. Lunghe digressioni sui perché e sui percome della sua vita, degli altri e del mondo. Se ne andava spesso con un’espressione soddisfatta, come se avesse fatto il suo dovere o come se avesse sentito di aver parlato bene. Sentiva in cuor suo di aver fatto un buon lavoro. “Poco e niente”. Ora invece quei pensieri insignificanti che venivano illuminati da quei “Flash” disturbavano, perché provenienti dal “Back”.

Io: “Dovrebbe comunicarmi i suoi pensieri operando il minor grado di censura possibile. È la regola fondamentale sulla quale abbiamo basato il nostro lavoro.”

P: “Lo faccio, sono migliorato…”.

Io: “Vede… Nel caso del flash back lei ha deciso di scartare dei contenuti arbitrariamente e di screditare la sua stessa espressione. Quelle immagini che lei mi descrive attraversare fugacemente la sua mente, vengono dal suo passato…”.

P: “Ma mi disturbano…”.

Io: “Proprio perché vengono dal profondo la disturbano… (Silenzio) Per oggi va bene così.”.

Il semplice lapsus di parola era stato svelato: i pensieri che gli attraversavano la mente perturbandola durante i suoi racconti erano proprio dei “Flash Back” e non delle immagini senza significato. Rappresentavano dei ricordi del passato mascherati in immagini di lavoro che non avevano niente a che fare apparentemente con il discorso corrente, il quale nonostante questo distacco semantico non riusciva a distogliersene senza perdite. Da qui la comprensione che quelle immagini erano pensieri inconsci deformati non solo da non scartare per scongiurare un gioco di squadra con la resistenza, ma anzi da tenere nella massima considerazione, perché il loro disvelamento rappresentava il secondo gradino della discesa verso l’inconscio.

Questo è tutto aspettando altro materiale, altre associazioni. O meglio, sembrerebbe tutto e probabilmente non lo è. Con un po’ di pazienza se mi seguirete tenterò di dimostrare quanto altro c’era in queste poche parole.

Abbiamo bisogno di altri antefatti, di “Comunicazioni prime” per formulare un interpretazione puntuale. Ma certamente vi starete chiedendo cosa sia una “Comunicazione prima”. La descriverò brevemente.

La “Comunicazione prima” è, per l’appunto, una comunicazione analitica che dalla propria definizione prende due principali connotazioni:

  1. Connotazione temporale. È una frase o una parola o un suono (o un gesto) che non avete mai annotato prima e si staglia dal campo di coerenza analitico come se provenisse da un altro luogo, e così è poi nei fatti considerando che salendo dall’inconscio passa solo a vestirsi di accessori dalla razionalità. Se ripetuta subisce trasformazioni trascurabili se non nulle.

  2. Connotazione numerica. Si fa riferimento ad una qualità mutuabile dal mondo dei numeri razionali ed in particolare dai numeri primi. Con quest’ultimi condividono la non scomponibilità: possono essere divisi solo per se stessi. In psicoanalisi si traduce nella loro iniziale non riconducibilità da altre vie ai loro significati. La loro comprensione passa solo nella loro somma narrativa: si creano “Costruzioni pari”, quindi divisibili, che quando interpretate rappresentano sovente passaggi fondamentali e trasformativi.

Non sarà agevole ma tenterò nel prosieguo del racconto della terapia di esplicitare chiaramente quanto espresso teoricamente.

CONTINUA…

05) La Signora senza destino

F)Venerdì 28 gennaio.

Avevamo concluso. Sorrideva timidamente. La voce era sempre grattugiata ma faceva meno male del solito. Aveva dei picchi. Sorrideva. Non perse però la sua ultima occasione per poter parlare della figlia, del marito, del figlio…

La figlia aveva preso dal padre e il figlio da lei. Chiesi se non avesse proprio niente del padre il maschio ma lei negò. La femmina si. Guardai la signora come per invitarla a fidarsi. A poter pensare ad altro. Ma sorrisi pensando che era inutile. In fondo stava meglio. Andava meglio così. Poi ad un tratto disse: “E se mi tornano i pensieri suicidi? Come faccio?”. Rimasi sorpreso.

Tentai di mascherare: “ Perché mai dovrebbero tornare. Sta meglio adesso. Da qui deve ripartire.”.

E lei: “Sa io mi sono suicidata tre volte, magari…gliel’ho detto no?”. Tentai di non sgranare gli occhi. Nei suoi racconti si era così per dire dimenticata di raccontarmi di un tentato suicidio, così…

Presi del tempo. Dovevo calmarmi. All’ultimo incontro stava tentando di sgretolare tutto. Ed in un colpo solo. Ero riuscito a capirlo. Potevo controllare la situazione. Avevo in mano le chiavi interpretative delle dinamiche transferali che si erano instaurate nello spazio, tra di noi, in quel momento. E in presa diretta.

Sbottai: “Lei non vuole morire!!! Lei non può morire. Almeno di sua mano…”

E lei: “Ma come, io mi sono suicidata…”

Ed io: “Sii!! Tre volte lo so!!! Ma forse vorrà dire qualcosa se si è suici…emm…se ha tentato il suicidio tre volte ed è ancora viva!!! O no?!?”.

E lei: “Sa io ho preso cento pastiglie di Tavor. Volevo morire. Ma neanche…”

Ed io: “…le flebo come le altre due volte le hanno messo… Lo so!!!”

E lei: “Vorrei solo saper il perché, cento sa, cento…bla bla bla…”

Caddi in un vuoto spazio temporale interno. Uno spazio dove poter amplificare il tempo, riflettere ed osservarmi… e quindi controllarmi.

Mi calmai, veramente. La farò sentire viva io signora, pensai. Pacatamente. Ripresi un discorso conosciuto, affrontato anche i precedenti incontri. Il semplice suggerimento consisteva nell’idea di curare le cose buone e gratificanti della sua vita e di comprendere, per evitare che fossero così dure, quelle che facevano male. La tranquillizzai.

Mi chiese del perché creava idee negative e perché facessero così male. Le dissi che la risposta era dentro di lei ma che per il momento poteva ritenersi soddisfatta. “…affrontare questa domanda in modo frettoloso è come se aprissimo un vaso senza…”

E lei: ”…la possibilità di chiuderlo…”

Sapeva più di quanto voleva far intendere. La vita la conosceva, almeno la sua parte più grigia, più dolorosa. Sapeva che doveva rimanere coperta. Lo sapeva per esperienza.

I suoi sogni.

Una casa a due piani con tante finestre aperte dalla quale entrano ed escono tanti uccelli.

Forse rappresenta la mia voglia di andare via, volare, ma anche la mia incapacità di farlo e di tornare sempre indietro…”

“…e poi ho sempre sognato di sognare mia madre che non ho mai conosciuto…”

Io: “Quindi l’ha sognato?..”.

E lei: “No…l’ho solo desiderato senza che accadesse mai…stare con mia madre almeno in sogno e di non svegliarmi mai più”.

04) La Signora senza destino

E) “Oltre la nebbia”.

Quante parole. Semplici e chiare. Dotate di senso, consequenziali. Mi aveva raccontato una notevole mole di eventi della sua vita, ripentendoli più volte per giunta. Dal più insignificante al più decisivo. Dando un’intonazione ponderata. Mai sopra le righe. Interpretazioni di ricordi di vita standard. Era un pacchetto, pronto all’uso. Chiuso. Coperto. Nel suo stile narrativo così metodico andavano quasi perdendosi le nozioni fondamentali. Lei andava avanti sia parlasse del suo lavoro sia del suo tentativo di suicidio. E si creava una nebbia. Soporifera. Che addormentava le sensazioni e le emozioni. Nell’uditore. Ma soprattutto in lei. Tante parole, tantissime. Pochi pensieri. E dove ce ne era il bisogno ecco pronto un ulteriore surplus. Altra nebbia. E le luci delle case erano le luci delle stelle.

Piccoli strappi della sua storia c’erano, vero. Volevo evitare un forzatura dell’interpretazione dei singoli eventi. Mi sembravano interpretazioni sterili. Non aprivano comprensioni più ampie. Sembravano variazioni sul tema. Camuffate. Binari che morivano inesorabilmente. In realtà erano parole di frasi che si potevano creare da una sintassi alternativa. “A levare”. Creavano un tema in secondo piano, come nelle illusioni ottiche. Da vedere, cercare. Da evitare.

Quale tema allora si nascondeva nella nebbia? Quali pezzi del mosaico bisognava riunire per dare una connotazione emotiva ad una vita raccontata così piatta?

Ero dell’idea che da qualche parte li, nella nebbia, c’era qualcosa che non era dato vedere, sentire, parlare. Formare il mosaico. La nebbia era una gabbia. Bisognava riportare le proiezioni a casa. Si percepiva un pericolo. La sua mente. Il suo pensiero, quello pensante. Le sue fantasie. Le sue emozioni. Erano nate morte. Gemelle di un modello da acquisire, dato. A scatola chiusa. Bisognava nascondere l’originale. Rinchiuderlo. In fondo non era ben chiaro come fossero andate le cose. Di cosa era morto? Era morto. Nel momento dei due tentati suicidi cosa aveva visto tra le bianche spire dei suoi vissuti? La morte? Plausibile: “… sa, mi sono suicidata due volte …”.

O qualcosa di inaspettato. Peggiore. Come la fantasia. Tremebonda. Desiderata. Temuta. Come la vita. E allora meglio addormentarsi, ancora un po’ e magari per sempre. Per non sapere. Per non desiderare mai più.

D) Venerdì 14 gennaio.

Arrivai tardi in clinica. Come durante tutto quel periodo. Tentai di rilassarmi al distributore di bevande e varie. Presi un caffè e sedendomi sorseggiai la calda bevanda guardandomi attorno. Per godermi la clinica. Per sentirmi meno ospite.

Casualmente passò di li il Dr. e dopo i saluti di rito mi accompagnò al reparto della signora. La fece chiamare.

Quando la vidi avvicinarsi nel corridoio, inesorabile, capii il perché di quella lenta ed inusuale sosta mattutina nonostante il mio già evidente ritardo. Qualcosa sapeva che da quel caffè dovevo acquisire più di qualche mg di caffeina. Mancavano dei corvi a strascico e una tempesta da cornice. Era più giù del solito. Trattenni il fiato.

Io: “Buongiorno signora come va?”. Sapevo di plastica.

La signora: “M”. Suono discendente con eco. Tonalità simile ai mantra intonati dai monaci tibetani.

Deglutii: “Bene, andiamo.”

Entrammo nella stanza e senza neanche si sedesse: “Dottore, ma a che servono questi incontri? Insomma voglio dire…”

Mi innervosì molto questa provocazione ma non caddi nella domanda: “Me lo dovrebbe dire lei signora. O ancora meglio, potremmo trovarlo insieme”.

Come non fosse successo niente incominciò nuovamente a raccontarmi la ben conosciuta storia della sua vita. Poi ad un tratto mi disse: “A che servono questi incontri?”.

Respirai, presi tempo, contai fino a dieci. Ma non servì. Mancava poco alla fine dell’incontro e decisi che una piccola scossa male non le avrebbe fatto. Reagii: “Non servono se lei continua a parlare degli altri. Se lei continua a pensare che il problema sia fuori di lei. So tutto di sua figlia, figlio, ex marito. Ma di lei? Quando incominceremo a parlare di lei?”.

E lei: “E cosa le dico?”.

Mi spense. Non che esternamente mi fossi scomposto, ma presi ancora qualche secondo per rimettermi in ordine. Questo scambio l’aveva vinto chiaramente.

La congedai.

E)Venerdì 21 gennaio.

Mi aveva veramente provato l’incontro precedente. Arrivai in clinica con un po’ di ritardo. Ero pronto all’impatto con quella massa gelatinosa della sua depressione e rappresentata fisicamente dal suo corpo, compatto, smussato e inafferrabile. Lento nei movimenti, ma inesorabile.

Mi riparlò della sua pensione, del marito che l’aveva lasciata nell’ottantanove, del figlio che giocava compulsivamente, era depresso e non aveva la ragazza… sapevo ormai tutto a menadito.

Mi parlò però con gioia dei suoi nipotini come di un qualcosa di bello. Da curare. Provai ad inserirmi.

03) La Signora senza destino

Come il diciassette.

Al termine.

Io: “La prossima volta se vuole signora parleremo un po’ più di lei … sono qui per lei io”

La signora sorpresa: “Ah si … e che dico? Ho finito”.

Ed Io: “Vedrà che verrà fuori dell’altro …”.

Mi guardò tra il bisognoso e l’incuriosito.

Arrivederci”

Arrivederci”

C) Venerdì 31 dicembre.

I soldi’.

Come il venti.

Tra un bilancio economico ed una riflessione sul peso della sua pensione e un’altra …

Ma gliel’ho detto dottore che mio figlio gioca compulsivamente e si è fatto fuori trentamila euro e adesso ha debiti con le finanziarie?”

Io: “No …”

Come il ventiquattro.

Al termine.

Io: “La prossima volta se vuole signora parleremo un po’ più di lei … Vede, è un po’ troppo concentrata sulle vicende altrui perdendo a volte di vista le sue percezioni ed emozioni delle cose.”

La signora sorpresa: “Ah si … e che dico?”.

Non esultai al suo trasporto. Ma almeno non aveva finito.

Ed Io: “Vedrà che verrà fuori dell’altro …”.

Mi guardò tra l’incuriosito e il possibilista.

Arrivederci”

Arrivederci”

D) “La nebbia”.

Elementi importanti da trattare, anche se a parte, ce ne erano in abbondanza. Ma più passavano gli incontri e più ero sicuro che gli eventi pur traumatici che le accadevano attorno non erano determinanti nella sua patologia. Ne erano l’avanguardia. Proiettava la sua incapacità determinativa criticandola nel figlio per poi riservare lo stesso trattamento alla decisionalità della figlia. Non andavano bene né l’una né l’altra. Sapeva che avrebbe dovuto vivere di più ma sapeva anche che farlo sarebbe stato difficile.

Il figlio soffriva di depressione, come lei. La figlia dopo pochi mesi dalla sua separazione si era messa con il collega dell’ex – marito come il padre fece con la nuova compagna alla morte della madre. Il figlio soffriva di bisogni compulsivi vari. Giustificava il gioco con la maggiore pericolosità degli ipotetici sostituti come droga, alcol. La figlia aveva avuto un passato di anoressia all’uscita di casa del padre e depressione post – partum alla prima figlia. Aleggiava depressione in quel grande appartamento che tutto andava a raccogliere, a rinchiudere e a disperdere. Il figlio non aveva relazioni affettive conosciute.

Tanti elementi, tanti dati patologici. Proiezioni, identificazioni. Come se la loro risoluzione potesse avere una ripercussione positiva sulla sua vita interiore. Nebbia. Soporifera nebbia.

CONTINUA