La signora senza destino.
A) Venerdì 17 dicembre 2010.
Appena arrivato, a bruciapelo il Dr. mi comunicò che avrei avuto un colloquio con una paziente “interessante”. Non volle comunicarmi nulla a riguardo. Avrei dovuto indagare autonomamente.
Arrivò la signora, andatura lenta ma inesorabile. Tentò subito di agganciare il Dr.. Lui era però pronto a schivarla: la deviò su di me.
Dr.: “Buongiorno signora. Come va?”
Lei, lentamente: “Bene, grazie.”. Non sembrava.
Dr.: “Oggi può parlare con il dottore. Le può raccontare tutto. Se vuole. Arrivederci.”.
Lei: “Grazie. Arrivederci”. All’espressione del viso bisognoso di altro dopo questo abbandono il Dr. aggiunse allontanandosi: “Dall’inizio …” Collocandomi di fatto nella sua storia a pieno diritto. Formale.
Trovammo una stanza dove iniziare il colloquio. C’erano due sedie poste agli estremi del lato lungo di un angusto banchetto appoggiato alla parete. Con parte della schiena appoggiata al muro e parte allo schienale della sedia, i nostri corpi si fronteggiavano a quarantacinque gradi acuti. Con un separatore avrebbe saputo di sacrestia. Provai a tranquillizzare la signora riaffermando la sua completa libertà nel parlare.
Con tanto di crocefisso sopra di noi: “Mi dica signora …”.
Lei: “Devo parlare?”
Io: “Se vuole sì, signora”.
Lei: “Dall’inizio?”
Io: “Si signora. Da qualsiasi punto sia per lei l’inizio”
Lei: “Ah … bene” disse soddisfatta. Quindi pianse.
Un minuto.
Si asciugava le lacrime con un fazzoletto usato, pronto all’uso. Balenò in me l’intuizione che non sarebbe stata una passeggiata. Neanche per lei.
Il racconto iniziò da quando venne lasciata in collegio con le altre tre sorelle alla morte della madre. Forse. E ricominciò il pianto. E poi.
“…tre, tre, tre.” Mi spiegò che intendeva che erano tre sorelle e che dalla più piccola passavano tre anni e così da lei alla più grande. Tre, tre, tre.
La madre stava male, ricoverata da tempo in ospedale. Non capii mai bene di cosa soffrisse e del motivo del ricovero. Alla sua scomparsa il padre si fece subito una nuova vita. La nuova madre che “Non la chiamo matrigna perché è dispregiativo”, in realtà ne aveva tutti i titoli vista la sua determinante funzione nel farle chiudere in collegio e praticamente mai più entrare in casa. Anche il figlio nato dalla nuova unione non era un “fratellastro” per lo stesso motivo. “Gli volevo bene” per poi aggiungere poco dopo che non lo aveva mai realmente conosciuto.
Uscì dal collegio a tredici anni. Andò a lavorare a Marsala, Sicilia, come bambinaia assieme alle due sorelle. La più grande faceva la cameriera, lei guardava i bambini della casa come la sorella più piccola. Dopo due anni si ripresentò la stessa occasione a Roma. Andarono anche perché, come detto precedentemente, la casa paterna gli era ormai interdetta. La distribuzione delle mansioni era la medesima. Inserita in una comunità di emigrati sardi, conobbe un ragazzo, fratello di una sua amica sempre cameriera presso famiglie romane. Lo incontrava nelle otto ore settimanali di libertà che aveva suddivise equamente tra il giovedì e la domenica. Era più grande di sei anni e lavorava presso un ambasciatore come autista e tuttofare.
A dieciassette anni rimase incinta. Non poteva riconoscere il bambino come minore. Il ragazzo nicchiava. Nascose tutto alla famiglia per evitare problemi ancora più grandi. Di onore probabilmente. Alla nascita del bambino dovette resistere all’assalto delle assistenti sociali che volevano convincerla a darlo in adozione essendo lei ragazza madre. Le rimase di andare al brefotrofio, dove visse per nove mesi. Quindi riuscì ad uscire. E finalmente a sposarsi.
CONTINUA…