05) Autolesionismo

PROSEGUE…

05)

Yakuza.

In Giappone detta anche Gokudō, tradotta e conosciuta in occidente con un generico “Mafia Giapponese”, è una serie di bande (Kumi) organizzate, chiaramente dedicate ad attività illecite.  È regolata da principi gerarchici e di onore molto rigidi come garanti di un ordine desiderato condiviso. È uso tra gli affiliati definirla “Ninkyō dantai” accostabile ad un significato simile a “onorata società” e gli affiliati hanno un codice cominicativo gergale ed estetico distinguibile e distintivo. Anche loro hanno tra i vari diritti – doveri interessanti particolarità sulle quali soffermarci. Tra i doveri, nel rito di iniziazione giurano di non contravvenire mai a questi punti:

1. Non avere contatti con le moglie di un altro componente.

2. Astenersi da attività diverse da quelle normalmente  ordinate anche sotto la spinta della povertà.

3. Non tradire mai i segreti dell’organizzazione.

4. dare lealtà assoluta al proprio capo.

5. Usare solo il linguaggio gergale, quello speciale del proprio Kumi.

Tra i diritti è possibile tatuarsi il corpo tramite la vecchia tecnica giapponese: si penetra la pelle ripetutamente con un chiodo sottile colpito con un martelletto che viene immerso appena nell’inchiostro. È una pratica non solo accettata ma distintiva: molto dolorosa porta spesso a giorni di febbre alta per avvelenamento da inchiostro e la morte non è rarissima. A sottolineare la qualità identitaria del gesto bisogna menzionare quanto in Giappone l’esposizione di un certo tipo di tatuaggio sia inequivocabilemte indicativo dell’appartenenza alla malavita organizzata e quindi formalmente una divisa: ad esempio si è interdetti ai luoghi pubblici dove si deve far mostra del proprio corpo, come le piscine ad esempio, se tatuati. Come proverò a dimostrare successivamente anche in questo caso il tatuaggio mantiene intatte le sue prerogative. Non saprei se sia azzardato definirlo una manifestazione atemporale e acontestuale. Sospetto abbia caratteristiche “Elementali” pronunciate nel suo significante psichico.

Nel caso di contravvenzione alle rigide regole d’onore imposte, in alternativa alla punizione massima, ovvero l’allontanamento dal proprio Kumi e l’essere banditi da tutti gli altri (hanmon), c’è la possibilità di rimediare tramite un atto volontario: è l’usanza o possibilità per l’affiliato (kobun), di recidersi, davanti al  capo offeso (oyabun), una falange del mignolo in segno di scusa e compensazione: pena anche la morte. Il così detto “yubitsume” atto che non permette allo oyabun di rifiutare il perdono. Qui si evidenzia chiaramente la natura del male imposto come collante del costituito tramite la castrazione virile rispetto al capo ordalico ad un livello simbolico non particolarmente derivato. La funzione sociale dei Kumi, radicata nel territorio nipponico dai tempi feudali, è riconosciuta anche dalla fazioni politiche che legittimano apertamente la loro esistenza. Derive partitiche di estrema destra legittimano la loro esistenza in un discorso a noi utile  se letto in quest’ottica: le caratteristiche di rigidità e controllabilità dell’organizzazione rendono funzionalmente desiderabile la loro attività sul territorio da un gruppo in un dato momento in quel luogo. Queste condizioni si riflettono in dei comportamente altrettanto prevedibili e quindi anche indirizzabili se non alla necessità emarginabili rendendo la Yakuza socialmente funzionale. Alla fine della seconda guerra mondiale, con il benestare del Comandante supremo delle forze alleate ovvero il generale Douglas MacArthur  allora presente sul territorio, la Yakuza ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico (!) in cambio di appalti nel mondo dell’edilizia fino ad infiltrarsi sempre più compiutamente nel tessuto politico giapponese fino ad arrivare a fornire le scorte personali di importanti uomini politici. Nonostante la matrice fortemente delinquenziale dell’organizzazione ancora oggi molti giapponesi vedono nella Yakuza un gruppo nel quale identificarsi perchè protettori dei più deboli sui quali fare affidamento nonostante le leggi di sensibilizzazione del governo e le leggi antimafia varate (anche se solo nel 1992). La loro desiderabilià sociale si manifesta nella possibilità degli affiliati di girare impunemente ed avere dei ritrovi, lussuosi, dove campeggia in bella vista il logo del loro Kumi. Le derive patologiche presenti compentrano i meccanismi funzionali alla loro socialità. Come ultimo curioso dato vorrei sottilenare la natura adolescenziale di questo gruppo analizzando l’eziologia del nome Yakuza: la derivazione da tre numeri, 8 – 3 – 9 da cui in giapponese Hachi, Kyuu e San e quindi Ya – Ku – Sa, rappresentanti il punteggio più basso del gioco di carte nipponico l’Oicho-Kabu ci suggerisce da un lato quale sia stato il primo campo di affari dll’organizzazione ma dall’altro il suo spirito fanciullesco (il gioco)  e la sua percezione di inadeguatezza rappresentata dal punteggio più basso punto dal quale affermarmarsi in modo compensatorio.

Adesso sonderemo un’altro tipo di condotta per provare a osservare come si possano avere due fini opposti nello stesso comportamento: l’uso di sostanze.

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04) Autolesionismo

 

Prosegue..

04) Clinicamente teorico.

Un breve antefatto mi è sembrato doveroso in quanto ritengo che sondare l’humus che nutre una patogenesi sia imprescindibile da un qualsiasi tipo di comprensione. In questo caso psicosociale. Non ho voluto affrontare volontariamente l’aspetto familiare in quanto credo meriti un superiore approfondimento, separato, vista la sua peculiare eterogeneità.

Perché un punto di vista psicosociale? Perchè è nel sociale che il tipo di autolesionismo in esame, naturalmente di matrice psichica, cerca la propria riconoscibilità essendo connotato da chiare manifestazioni esibizionistiche ed è qui che si incasella perfettamente nel suo scopo secondario. Da tenere in considerazione anche la caratteristica aggregativa tipica di tale condotte: sia che si tratti di autolesionismo fisico, di abuso di sostanze semplice o altro,  distinguerò due sovracategorie della scopo in autolesionismo identitario e autolesionismo annichilente a seconda delle finalità rituali.

Nell’autolesionismo identitario abbiamo la possibilità di isolare compiutamente caratteristiche qualitative dell’atto che che lo collocano, a partire da un agito nel reale, in un simbolo nello psichico e quindi utilizzabile in un percorso di comprensione.

Nell’autolesionismo annichilente possiamo invece distinguere come il comportamento agito sia una deviazione patologica del normale fluire libidico con un effetto autodistruttivo: la libido che non trova l’oggetto si trasforma in aggressività. Anche nella sua nuova veste l’energia libidica non riuscirà però ad essere collocata su di un oggetto utile: questo ulteriore fallimento nell’investimento è dovuto dalla enorme forza distruttiva a livello simbolico dell’energia trasformata, perchè originariamente inibita nella meta. Una sublimazione negativa che si autorivolge implosivamente al soggetto in una deriva masochistica.

Si intuisce comunque un sottile rumore di fondo comune: la ricerca di aiuto, un codice comunicativo per la parte dell’Eros, un messaggio, una ricerca della disintegrazione dalla parte del Thanatos. Malesseri gruppali: non che siano determinanti rispetto alla storia individuale, mi auguro non passi questo concetto, ma significativi in quanto spazio comune dove depositare le proprie frammentarie identità provenienti da storie diverse ma, in un ipotetico percorso piramidale, sfocianti nelle stesse condotte a livello statisticamente significativo e nella stessa attitudine mentale praticamente con tendenza all’uno. Il motivo dominante imprescindibile è individuabile nella qualità identitaria di questi soggetti: identità adolescenziali, non in senso temporale (naturalmente), connotate nell’oggettivazione di questa modalità di funzionamento. Permanente.

Potrà essere utile in tal senso adottare come termine di paragone dei riti iniziatici antropologicamente ancestrali all’interno di storiche organizzazioni societarie dandone una riassuntiva panoramica. Li definirò semplicemente, per comodità, momenti di aggregazione sociale dove si sancisce un passaggio generazionale tramite prove più o meno cruente, riconosciute dalla comunità di appartenenza. Il quid di tali iniziazioni è la funzione contenitiva e di attribuzione di responsabilità: c’è un passaggio netto di status dove si possono individuare, con modalità zero – uno, consegne di codici comportamentali. Nelle comunità prese in esempio è riscontrabile una caratteristica fondamentale: la presa in consegna del “nuovo adulto”. Verrà aiutato e sostenuto per poter meglio adempiere ai propri diritti doveri e formato tramite la pratica educativa dell’esempio: dall’integrazione sociale fino ad una interiorizzazione psichica completa degli oggetti sociali condivisi. Il supporto dato ha un’altra faccia della medaglia conosciuta e sempre condivisa: le severe sanzioni esercitabili nei casi di mancato adempimento alle mansioni assegnate. Lo scenario sommariamente rappresentato è un ingranaggio funzionale di un bisogno sociale filogeneticamente percepito e culturalmente espresso: la sopravvivenza della comunità. Utile sarà citare brevemente alcune delle regole societarie di un particolare sottotipo di comunità anche se evidentemente non ancestrale ma utile al nostro scopo: la Yakuza.

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02) Autolesionismo

antefatto

 

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02)

Antefatto

Una mattina di quelle K.S. si svegliò nella sua classe, frequentava il quinto liceo scientifico, preda di un attacco depressivo di insolita forza, cullato da istinti autodistruttivi e pene amorose.

Confidandosi con il suo amico F.P. cercava di trovare pace e serenità stretto da quella morsa soffocante, buia, che in quel periodo spesso lo sorprendeva all’inizio di un nuovo giorno. F.P. era considerato un pò da tutti un “pazzo genialoide” e non a caso era il suo compagno di banco e di tanto altro. Condividevano gli stessi gusti musicali, stesso modo di pensare, stesso umorismo e insomma la stessa innata passione/predisposizione per il Thanatos ed affini.

Chiedendogli consiglio su come slacciarsi da quella sensazione, facendo presente che il solito whisky-limone e zucchero a colazione non bastava più (alla buonanima di Bukowski: Super – Io di quel periodo), F.P. incominciò a pensare. Gli occhi brillarono e in pochi secondi, come da sua consuetudine, aveva trovato una risposta. Era un palliativo somatico, certo, non psichico, ma K.S. gli voleva bene, e anche lui: si fidava. Non obbiettò un secondo alla sua proposta. Si informò solamente sui perché e i percome. Approcciò anche stavolta alla questione sollevata difendendosi con il solito muro razionale, scudo di ogni stimolo fenomenico che impattava in quel periodo.

Non faceva una piega la sua idea. “Proviamo” disse. La soluzione era basata sul presupposto di una stimolazione esogena di endorfina… Provocata da… una bruciatura.

Si, gli consigliò di bruciarsi per stare meglio: la prima volta consistette nel tenere acceso a lungo un accendino per poi stamparlo con forza sul dorso di una mano…

La sensazione fu molto piacevole e rimase colpito dalla mancanza di quel dolore che comunque aveva pronosticato: niente… Solo tanta e gradita endorfina che sarebbe diventata un’amica da lì in poco tempo… Insieme a tante altre…

E…

…E da lì iniziò un uso incontrollato, poi abuso, di quella tecnica “terapeutica” fino a derive eclatanti. La porta era stata aperta e incominciarono altre sperimentazioni.

Incominciò con l’accendino, poi le sigarette, poi scaldava le attache. E si marchiava. Per arrivare a diventare un pioniere del campo tatuandosi a fuoco sul braccio durante l’ora di italiano il nome della ragazza che gli scaldava il cuore (!), la stessa che diede lo spunto all’inizio di queste pratiche. E non solo: scoprì un paio di anni dopo che negli Stati Uniti avevano (re)inventato una nuova moda: lo Scaring (scarificazione), il Branding (marchio a fuoco), il Cutting (incisione). Pensò che in ogni modo era stato un innovatore. E gli altri lo guardavano con rispetto e un po’ di timore. E ne era orgoglioso. Al massimo doveva inchinarsi temporalmente a chissà quale tribù africana della quale ai tempi non aveva cognizione e che aveva guidato il suo Thanatos su strade archetipiche definite.

Spille da balia, lamette da barba, chiodi, mozziconi di sigaretta, accendini, attache, erano diventati i suoi nuovi compagni di giochi. Questi si andavano ad unire ai vecchi: alcool, fumo, erba, l.s.d., anfetamine, antidepressivi farmaceutici, pasticche, eroina. I nuovi arrivati avevano una funzione fondamentale: di decompressione dalla depressione indotta dalla fine dell’effetto delle sostanze psicotrope. Unita alla depressione endogena di fondo si completavano in una combinazione esplosiva, o sarebbe meglio dire implosiva.

E così si era creato un piccolo gruppo, o sarebbe collimante parlare di tribù, che comprendeva adepti convinti, fino a curiosi simpatizzanti. Erano gli esclusi, gli emarginati sociali portatori però di una presunta superiorità intellettuale: gli altri non potevano capire…(e neanche loro, ma questa è un’altra storia). La coalizione fungeva da scudo: era efficace. Si difendevamo a vicenda: la solitudine e la malinconia che li distingueva si trasformava in gioia e spensieratezza accompagnati dalla “Loro” (in senso stretto…era di proprietà…) musica, storia, poesia. Sogni.

E si aiutavano, si controllavano a vicenda per tentare di evitare che qualcuno abusasse. Ma il controllo aveva un piccolo problema proiettivo: nell’abuso leggevano il loro profondo dolore. Poteva essere compensato solo da una superficiale comprensione della loro profonda richiesta di aiuto: mascherata da atti estremi. E allora tacevano. E speravano che non fosse troppo: questo era il pensiero, non si arrivava a mentalizzare le conseguenze. Speravano che non fosse troppo… E basta.

Fino al ritorno dell’amico sano e salvo. Come da una prova iniziatica. Il calore dell’abbraccio era sensibile, ce l’aveva fatta. Il gruppo era salvo. Dal mondo esterno era salvo. Questo provavano…

Ma nel loro intimo sapevamo che erano soli, solissimi. E la via di fuga era il dolore fisico. Sfuggire da quello psichico non si poteva, era pacifico. Ma quello fisico era strano: controllabile, e appagante. Il corpo era loro, ma in un’accezione diversa dal senso comune: era una cosa della quale potevano disporre senza dover rendere conto a nessuno, come se fosse un oggetto, privatamente intimo. Da maltrattare come una prigione, provocare, portare al limite. Punirlo per la sensazione di permanenza forzata che trasmetteva: il contenitore del male, del dolore. Del Persecutore. Con un effetto collaterale piacevolissimo: le sue difese naturali. Dolore: endorfina. Emozioni (forti): adrenalina. Era un tornare alle origini dopo qualche trip o magari una forte bevuta.

Si creava un’altalena tra l’uso di sostanze stupefacenti a fini terapeutici per evadere dal proprio corpo, per sentirsi meglio, per non pensare, pensare diversamente o a volte per far star bene proprio il corpo stesso e la sua persecuzione. Tutti ignari che l’oggetto delle persecuzioni erano proprio loro stessi.

CONTINUA…

01) Autolesionismo

 

autolesionismo-pratiche-identitarie

01)

Autolesionismo di alcune pratiche identitarie e annichilenti.

Una mattina di quelle K.S. si svegliò nella sua classe, frequentava il quinto liceo scientifico, preda di un attacco depressivo di insolita forza, cullato da istinti autodistruttivi e pene amorose….

CONTINUA…