11) Autolesionismo

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11)

B e C.

Nel caso “b”, invece avremo una deriva qualitativa secondo parametri analitici. Esempio: il tatuaggio sarà uno standard, inciso dal migliore tatuatore del quartiere e che sicuramente piacerà molto ai compagni di viaggio. Denoterà sicuramente oltre ai problemi citati per il caso “a” anche assenza di caratteristiche private, evidentemente con problematiche non sufficientemente integrate, da resistere all’impatto con l’imago del gruppo .

Non sfugge dalla classificazione prima suggerita la pratica “c”, dei tatuaggi “socialmente accettati”. Decisamente scevri per grado delle suddette implicazioni sicuramente vanno iscritti in un altro ambito. Non mi soffermerò troppo sull’argomento ma tenterò ugualmente di convincervi proponendovi l’immagine di una ragazza che si sia tatuata un delfino o una farfalla sulla caviglia…Basterà comunque fare degli aggiustamenti per verificare che il motore di base è lo stesso e posizionare il soggetto particolare sul dato continuum.

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10) Autolesionismo

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10)

Dietro il tatuaggio A.

Appare chiaro come la rappresentazione grafica di un’emozione in un tatuaggio sia un procedimento onirico rappresentativo del contenuto latente libidico con tutti i processi di condensazione e spostamento che ne derivano, tipici poi della produzione notturna. Viene posto fuori sul corpo in una sorta di proiezione psicotica esemplificando un modo di dire molto comune tra schizofrenici reali che recita più o meno nelle sue varie forme: “Tutto è a posto, niente è in ordine”. E quello che non è in ordine lo mettono fuori da sé, per far si che sia tutto a posto. E’ altresì evidente la fallacità dell’identità esibita tanto quanto ostentata. Nel “Barone Rampante” di Italo Calvino, Viola rimprovera Cosimo, che aveva scelto di vivere sugli alberi, di vantarsi che non sarebbe mai sceso, ammonendolo che le cose importanti si fanno e non si dicono… Chissà cosa avrebbe pensato Viola di modalità comunicative più estrose. Ora, essendo modalità di espressioni identitarie prettamente adolescenziali e, come detto precedentemente, connotate dalla caratteristica della permanenza, non sarà più difficile capire il perché ad un primo tatuaggio ne seguono sempre degli altri in varie e spesso anche attardate età della vita: la curva della ripetitività decresce dal caso “a” verso il “c”. Nuova emozione, vecchia strategia. Lo straripamento emozionale è comunque una costante di questi comportamenti e similari. Muovendosi nel regno della coazione a ripetere il nuovo verrà invariabilmente trattato come il vecchio. L’esempio dal quale traggo tali conclusioni è palesemente limite (ma non irreale!!!): è ciò che maggiormente si avvicina al concetto di tatuaggio identitario funzionale. La problematica risiede chiaramente nel carattere solipsistico di tale atto, nella mancanza di una finalità differita: assenza di principio di realtà, quindi passaggio all’atto e, mi ripeto, coatto.

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09) Autolesionismo

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09)

Tatuaggi.

Innanzitutto è doveroso fare dei distinguo di suddetta pratica introducendo sette dimensioni discriminative rispetto a ciò che ci interessa dimostrare per quanto riguarda la sua pratica in occidente. Questa distinzione è importante perchè spesso accade che la pratica dei tatuaggi come riti di passaggio, indipendentemente dalla latitudine, sia obbligatoria e quindi scevra di quella componente del libero arbitrio che invece ci offre spunti di riflessioni nell’uso che se ne fa oggi alle nostre di latitudini.

L’età del soggetto al primo tatuaggio.

L’esperienza scatenante.

Il simbolo scelto.

Se il simbolo del tatuaggio è stato pensato dal soggetto.

La zona del corpo scelta.

Se il tatuaggio è stato praticato dal soggetto stesso oppure da un’altra persona.

Se la società di appartenenza lo prevede nel dato periodo storico.

Su queste coordinate penso si possa arrivare a determinare una qualità del gesto in tre approssimativi sottogruppi su una ipotetica scala che chiamerò “Qualità identitaria nel tatuaggio”.

a) avremo una manifestazione più vicina possibile ad un rito identitario contenitivo e partecipativo ideale.

b) avremo un atto gruppale rappresentante l’assenza e l’impossibilità di una identità.

c) avremo tatuaggi che chiamerò impropriamente “socialmente accettati”.

Ponendo un caso limite, ma con scopo esemplificativo, dal quale poi si potranno andare ad estrarre situazioni più sfumate sul continuum prima sommariamente descritto, poniamo di avere: un adolescente che ha vissuto una fortissima emozione (negativa o positiva) impossibile da contenere per le sue deboli strutture, che pensa autonomamente ad un simbolo per lui significativo e che decida di inciderlo da solo in una parte del corpo caricata libidicamente in una nazione europea contemporanea. Quindi un caso “a”.

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05) Autolesionismo

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05)

Yakuza.

In Giappone detta anche Gokudō, tradotta e conosciuta in occidente con un generico “Mafia Giapponese”, è una serie di bande (Kumi) organizzate, chiaramente dedicate ad attività illecite.  È regolata da principi gerarchici e di onore molto rigidi come garanti di un ordine desiderato condiviso. È uso tra gli affiliati definirla “Ninkyō dantai” accostabile ad un significato simile a “onorata società” e gli affiliati hanno un codice cominicativo gergale ed estetico distinguibile e distintivo. Anche loro hanno tra i vari diritti – doveri interessanti particolarità sulle quali soffermarci. Tra i doveri, nel rito di iniziazione giurano di non contravvenire mai a questi punti:

1. Non avere contatti con le moglie di un altro componente.

2. Astenersi da attività diverse da quelle normalmente  ordinate anche sotto la spinta della povertà.

3. Non tradire mai i segreti dell’organizzazione.

4. dare lealtà assoluta al proprio capo.

5. Usare solo il linguaggio gergale, quello speciale del proprio Kumi.

Tra i diritti è possibile tatuarsi il corpo tramite la vecchia tecnica giapponese: si penetra la pelle ripetutamente con un chiodo sottile colpito con un martelletto che viene immerso appena nell’inchiostro. È una pratica non solo accettata ma distintiva: molto dolorosa porta spesso a giorni di febbre alta per avvelenamento da inchiostro e la morte non è rarissima. A sottolineare la qualità identitaria del gesto bisogna menzionare quanto in Giappone l’esposizione di un certo tipo di tatuaggio sia inequivocabilemte indicativo dell’appartenenza alla malavita organizzata e quindi formalmente una divisa: ad esempio si è interdetti ai luoghi pubblici dove si deve far mostra del proprio corpo, come le piscine ad esempio, se tatuati. Come proverò a dimostrare successivamente anche in questo caso il tatuaggio mantiene intatte le sue prerogative. Non saprei se sia azzardato definirlo una manifestazione atemporale e acontestuale. Sospetto abbia caratteristiche “Elementali” pronunciate nel suo significante psichico.

Nel caso di contravvenzione alle rigide regole d’onore imposte, in alternativa alla punizione massima, ovvero l’allontanamento dal proprio Kumi e l’essere banditi da tutti gli altri (hanmon), c’è la possibilità di rimediare tramite un atto volontario: è l’usanza o possibilità per l’affiliato (kobun), di recidersi, davanti al  capo offeso (oyabun), una falange del mignolo in segno di scusa e compensazione: pena anche la morte. Il così detto “yubitsume” atto che non permette allo oyabun di rifiutare il perdono. Qui si evidenzia chiaramente la natura del male imposto come collante del costituito tramite la castrazione virile rispetto al capo ordalico ad un livello simbolico non particolarmente derivato. La funzione sociale dei Kumi, radicata nel territorio nipponico dai tempi feudali, è riconosciuta anche dalla fazioni politiche che legittimano apertamente la loro esistenza. Derive partitiche di estrema destra legittimano la loro esistenza in un discorso a noi utile  se letto in quest’ottica: le caratteristiche di rigidità e controllabilità dell’organizzazione rendono funzionalmente desiderabile la loro attività sul territorio da un gruppo in un dato momento in quel luogo. Queste condizioni si riflettono in dei comportamente altrettanto prevedibili e quindi anche indirizzabili se non alla necessità emarginabili rendendo la Yakuza socialmente funzionale. Alla fine della seconda guerra mondiale, con il benestare del Comandante supremo delle forze alleate ovvero il generale Douglas MacArthur  allora presente sul territorio, la Yakuza ebbe l’incarico di mantenere l’ordine pubblico (!) in cambio di appalti nel mondo dell’edilizia fino ad infiltrarsi sempre più compiutamente nel tessuto politico giapponese fino ad arrivare a fornire le scorte personali di importanti uomini politici. Nonostante la matrice fortemente delinquenziale dell’organizzazione ancora oggi molti giapponesi vedono nella Yakuza un gruppo nel quale identificarsi perchè protettori dei più deboli sui quali fare affidamento nonostante le leggi di sensibilizzazione del governo e le leggi antimafia varate (anche se solo nel 1992). La loro desiderabilià sociale si manifesta nella possibilità degli affiliati di girare impunemente ed avere dei ritrovi, lussuosi, dove campeggia in bella vista il logo del loro Kumi. Le derive patologiche presenti compentrano i meccanismi funzionali alla loro socialità. Come ultimo curioso dato vorrei sottilenare la natura adolescenziale di questo gruppo analizzando l’eziologia del nome Yakuza: la derivazione da tre numeri, 8 – 3 – 9 da cui in giapponese Hachi, Kyuu e San e quindi Ya – Ku – Sa, rappresentanti il punteggio più basso del gioco di carte nipponico l’Oicho-Kabu ci suggerisce da un lato quale sia stato il primo campo di affari dll’organizzazione ma dall’altro il suo spirito fanciullesco (il gioco)  e la sua percezione di inadeguatezza rappresentata dal punteggio più basso punto dal quale affermarmarsi in modo compensatorio.

Adesso sonderemo un’altro tipo di condotta per provare a osservare come si possano avere due fini opposti nello stesso comportamento: l’uso di sostanze.

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